Il concerto di Paolo Conte sul prestigiosissimo palco della Scala di Milano diventa l’occasione per analizzare un evento più unico che raro
Ci sono luoghi che sono mitici e che meritano di essere rispettati per lo straordinario valore storico e artistico che rappresentano. Palcoscenici che non possono essere adattati a qualsiasi evento e che non meritano di essere prestati a uno spettacolo qualunque.

Ci sono artisti, per contro, che meritano l’onore e l’omaggio doveroso di poter suonare almeno una volta nella vita dove, al di là delle forme e delle convenzioni, non avrebbero diritto di residenza. Il concerto di Paolo Conte al Teatro della Scala di Milano rappresenta uno di quegli eventi unico nel suo genere che per un attimo ferma il tempo e fa riflettere.
Paolo Conte alla Scala
L’idea di un concerto del cantautore astigiano nel più prestigioso teatro lirico d’Italia (e forse del mondo) era stata presentata molti anni fa. Una proposta che in qualche modo avrebbe dovuto ‘svecchiare’ l’immagine della Scala per proporre un’immagine più trasversale e ampia di un teatro sacro che fa della tradizione il proprio punto di forza.
Non è certo la prima volta che un musicista non classico si esibisce in un teatro lirico. Basti pensare allo splendido concerto acustico che Bruce Springsteen realizzò molti anni fa all’interno di istituzioni altrettanto tradizionali, come il Carlo Felice di Genova. Ma la Scala è un’altra cosa.
Una serata diversa
Paolo Conte si presenta sul palco accompagnato dalla band tradizionale di sempre in un’atmosfera soffusa che sembra trasformare il rigido protocollo della scala in qualcosa di completamente diverso. Nemmeno fosse un night club.
Il cantautore, elegantissimo e schivo, pochissime le parole pronunciate nel corso di tutte le serate, inizia una scaletta straordinaria che comincia con “Aguaplano” e prosegue con tutti i suoi grandi classici. Non si alza quasi mai dal suo pianoforte, se non per “Ratafià”. Cosa più unica che rara tra i suoi musicisti compare addirittura una chitarra elettrica. Qualcuno tra il pubblico applaude a scena aperta o accenna un battimani a tempo.

Telefonini ammessi
Persino le maschere, tutela e guardia di un regolamento strettissimo, dimostrano una certa elasticità in più tollerando qualche telefonino che spunta e che fugacemente si concede un flash o un video di pochi secondi. Alla fine persino i puristi che hanno molto polemizzato sulla concessione di un teatro sacro a un musicista ‘pop’ – anche se questa ennesima etichetta sta strettissima – devono ammettere. La presenza di Paolo Conte alla Scala sembra essere la giusta contaminazione di una cultura cui ha volte va un po’ tolta quello scafandro tipica del ‘non si dice’ non si fa’.
Due tempi: diciassette canzoni con due bis. La scaletta, dedicata a una parte molto jazz, la prima, e a una seconda più mediterranea e calda, si conclude con il pubblico in piedi che fa il coretto di “Via con me” (eseguita due volte) e Conte, dimesso, schivo, quasi infastidito di tanti applausi, si inchina come i veri maestri d’orchestra. Una scaletta non rumorosa: non c’è Azzurro, non c’è Bartali, manca un po’ di Gelato al Limon. Ma c’è un maestro-poeta che si è mostra all’altezza di un evento che merita di essere riproposto. Con moderazione e per meriti acquisiti.