Nella sua autobiografia, Matías Almeyda rivela dei retroscena sconcertanti sulla sua carriera calcistica italiana e lo scandalo è servito, l’ennesimo. Una vida loca. Una carriera di successo che, senza qualche follia, chissà cosa sarebbe potuta essere. Matias Almeyda, allenatore del River Plate ed ex centrocampista di Lazio, Parma e Inter, racconta tutto in un’autobiografia dal titolo “Almeyda, anima e vita”. “Per tutta la carriera ho fumato dieci sigarette al giorno. Anche l’alcol è stato un problema. Bruciavo tutto negli allenamenti, ma vivevo al limite” – è questo è solo un assaggio.
Le esperienze negative in Italia sono state diverse e si spazia dai casi di presunto doping ai tentativi di combine. “A Parma ci facevano una flebo prima delle partite. Dicevano che era un composto di vitamine, ma prima di entrare in campo ero capace di saltare fino al soffitto. Il calciatore non fa domande, ma poi, con gli anni, ci sono casi di ex calciatori morti per problemi al cuore, che soffrono di problemi muscolari e altro. Penso che sia la conseguenza delle cose che gli hanno dato” – ha ammesso. In nerazzurro, dal 2002 al 2004, comincia la fase calante della sua carriera. “Una volta ad Azul, il mio paese, ho bevuto cinque litri di vino, come se fosse Coca Cola, e sono finito in una specie di coma etilico. Per smaltire, ho corso per cinque chilometri finchè ho visto il sole che girava. Un dottore mi ha fatto 5 ore di flebo. Sarebbe stato uno scandalo, all’epoca giocavo nell’Inter. Quando mi sono svegliato e ho visto tutta la mia famiglia intorno al letto, ho pensato che fosse il mio funerale” – si legge nella sua sutobiografia. La presunta combine in Roma-Parma nell’anno dello Scudetto giallorosso del 2001- L’ombra del sospetto è pesante ed ingombrante.
Sempre nel libro, Almeyda ricorda un antefatto di Roma-Parma 3-1, la gara conclusiva del campionato 2000/2001 in cui i giallorossi vinsero lo scudetto: “Sul finire del campionato 2000-01, alcuni compagni del Parma ci hanno detto che i giocatori della Roma volevano che noi perdessimo la partita. Che siccome non giocavamo per nessun obiettivo, era uguale. Io ho detto di no. Sensini, lo stesso. La maggioranza ha risposto così. Ma in campo ho visto che alcuni non correvano come sempre. Allora ho chiesto la sostituzione e me ne sono andato in spogliatoio. Soldi? Non lo so. Loro lo definivano un favore”. All’Inter comincia ad ammalarsi: “La depressione è iniziata proprio a Milano. Due infortuni, troppo tempo senza giocare. Pensavo e pensavo. Un giorno non sentivo più la mano, quello dopo avevo perso la sensibilità nella metà del corpo. All’Inter c’era una psicologa. Mi diagnosticò attacchi di panico e prescritto una cura, ma non le ho dato retta. Ho capito che dovevo fare qualcosa quando mia figlia mi ha disegnato come un leone triste e stanco. Da allora tutti i giorni prendo antidepressivi e ansiolitici”.