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La femme fatale è una delle figure ricorrenti più importanti della storia del cinema. Il termine francese, ripreso anche da Brian De Palma come titolo di un suo film, trova un corrispettivo nell’italiano donna fatale, da non confondere con la dark lady, la cattiva che piega il protagonista ai suoi scopi grazie alle sue armi di seduzione. La femme fatale, pur possedendo lo stesso potere seduttivo e giocando un ruolo chiave nel dispiegarsi della trama, non deve essere per forza un personaggio negativo e spinto dalla brama di potere. Più spesso distrugge senza volerlo, la differenza che intercorre tra una Sharon Stone e una Marlene Dietrich.
La figura della femme fatale nasce e si sviluppa sulle pagine della letteratura di fine ‘800, trovando la sua completa rappresentazione nella Venere in pelliccia di von Sacher-Masoch (famoso padre del ‘masochismo’). Dal romanzo al cinema, medium per eccellenza del 1900, il passo è stato molto breve, e infatti la dark lady e la femme fatale sono tra gli archetipi più comuni fin dal cinema muto e in bianco e nero, basti pensare alla Maria di Metropolis (1927) o alla ammaliante Lulu di Louise Brooks in Il vaso di Pandora (1929). Anzi, è proprio nell’era classica di Hollywood che la femme fatale costruisce alcuni dei miti assoluti del cinema, attrici dalla bellezza irresistibile e dal fascino ambiguo, di cui Marlene Dietrich (L’angelo azzurro), Greta Garbo (Mata Hari) e Joan Crawford (Donne) sono forse le rappresentanti più famose.
Non le uniche, comunque, perché dagli anni ’40 agli anni ’60 è tutto un susseguirsi di figure a metà tra angelico e diabolico, vittime e carnifici al tempo stesso, in grado di portare gli uomini verso strade che non avrebbero mai pensato prima (il che include anche il crimine e l’omicidio). Il 1946, in questo senso, è un anno determinante, con la sequenza più bollente di donne fatali mai vista: Ava Gardner in I Gangsters, Rita Hayworth in Gilda, Lana Turner in Il postino suona sempre due volte, Barbara Stanwyck in Lo strano amore di Marta Ivers, Veronica Lake in La dalia azzurra e Lauren Bacall in Il grande sonno. Pochi anni dopo sarebbe apparsa sulle scene l’oggetto del desiderio assoluto, quel misto di ingenuità e malizia che porta il nome di Marilyn Monroe, celebrato soprattutto in Niagara (1953).
Gli anni ’60 e ’70, quelli dell’emancipazione e delle lotte femministe, propongono modelli di donna ben diversi, mettendo quasi del tutto in un cassetto la femme fatale in favore di personaggi indipendenti e che non trovano la loro realizzazione nella controparte maschile. Dobbiamo aspettare gli anni ’80 e ’90 per il ritorno in grande stile di figure fatali, come la Kim Basinger di 9 settimane e 1/2 e L.A. Confidential, la Sharon Stone di Basic Instinct, la Juliette Binoche di Il Danno o la Rebecca Romijn del già citato Femme Fatale di Brian De Palma. Il cinema degli ultimi anni sembra aver di nuovo accantonato questa figura, che trova l’ultima vera rappresentazione nella Nicole Kidman di The Paperboy (2012). La corsa della femme fatale è finita o con il suo fascino ammaliante tornerà presto a tormentare i nostri sogni?