Il caso di Giulio Regeni è ancora irrisolto e la speranza della famiglia di scoprire cosa sia accaduto al ricercato italiano non si è mai spenta: dal ritrovamento del cadavere ai problemi con gli 007 egiziani.
Giulio Regeni è il ricercatore di Fiumicello, in provincia di Udine, ucciso nel 2016 a Il Cairo, in Egitto. Il giovane decise di andare all’estero, in questo caso nella capitale egiziana, per seguire un periodo di ricerca e studio.

Regeni si iscrisse all’Università di Cambridge, conseguendo il dottorato di ricerca presso il Girton College. Durante quel periodo svolse una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani, scoprendo diversi aspetti sulla vicenda.
Dalla scomparsa al ritrovamento
Di lui non si seppe nulla da fine gennaio, ultimo messaggio risalente al 25 gennaio 2016 alle ore 19.41, da quel momento in poi assenza di qualsiasi tipo di comunicazione. Regeni inviò un ultimo messaggio alla fidanzata che si trovava in Ucraina, comunicando alla stessa di uscire con gli amici. L’amica e studentessa Noura Wahby lanciò l’allarme sui social, in merito alla scomparsa del ricercatore, di cui non si seppe più nulla.
Giulio Regeni si sarebbe dovuto presentare in piazza Tahrir per festeggiare il compleanno di un amico. Dopo l’allarme lanciato seguirono le ricerche del ragazzo per oltre una settimana. Ma il 3 febbraio 2016 il suo corpo senza vita del ricercatore fu ritrovato mutilato lungo una scarpata, precisamente all’altezza dell’autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria.

Il cadavere di Regeni presentò sin da subito tracce di torture fisiche, abrasioni, contusioni, fratture ossee e gravi danni all’altezza delle costole. Fu ritrovato con braccia, scapole e gambe rotte, così come parte dei denti, insieme anche a diverse coltellate in ogni zona del corpo.
E sullo stesso corpo dello studente furono scoperte bruciature di sigaretta, ulteriore segno di tortura subita da Giulio Regeni. In seguito alle indagini, inoltre, la causa del decesso fu attribuita ad una frattura all’altezza della vertebra cervicale. L’ipotesi è un violento colpo al collo, ma l’autopsia certificò anche una grave emorragia cerebrale.
Ipotesi e depistaggi
Le prime indagini formularono diversi sospetti, in realtà però infondati per mancanza di prove sufficienti. Inizialmente si parlò di un incidente stradale, poi una fantomatica relazione omosessuale terminata nel peggiore dei modi, infine si parlò di spaccio di droga. A seguire, però, queste congetture furono messe da parte, nella speranza di una collaborazione proficua, da parte delle autorità egiziane, con tanto di investigatori italiani giunta a Il Cairo per gli interrogatori.
Giunti in Egitto, infatti, incontrarono non pochi problemi con le autorità, nonostante le iniziali rassicurazioni. Furono interrogati alcuni testimoni, ma soltanto per qualche minuto. Come se non bastasse, le riprese video della stazione della metropolitana, all’interno della quale Regeni fu visto per l’ultima volta, furono cancellate. Negati tabulati telefonici del quartiere in cui fu trovato il corpo del ricercatore italiano, non senza tensioni fra i due Paesi.

Il 24 marzo 2016 la polizia egiziana uccise quattro persone, indicandole come probabili autori del sequestro di Giulio Regeni. Fu proprio il ministero dell’Interno egiziano a ribadire che quella banda era specializzata nel rapimento di cittadini stranieri con conseguente richiesta di riscatto. In quella occasione, inoltre la polizia annunciò il ritrovamento di diversi oggetti personali, fra questi anche un cubetto di hashish. In realtà, però, l’autopsia non lasciò dubbi: Regeni non fece assunzione di alcuno stupefacente.
Soltanto in seguito, invece, il procuratore escluse il coinvolgimento della banda nell’omicidio del ricercatore friulano. Grazie ai tabulati, infatti, si scoprì che la banda si trovava nei giorni della scomparsa di Regeni a oltre 100 chilometri dal Cairo. I familiari delle vittime, inoltre, smentirono la notizia della sparatoria, accusando la polizia di averli uccisi a distanza ravvicinata.
Generali egiziani nei guai
Un fascicolo di oltre 90 pagine, indicata come documentazione di parte egiziana del medico legale, stabilì che Regeni fu torturato e interrogato ogni 10-12 ore per almeno sette giorni, prima del decesso causato da tutta una serie di problemi derivati dalle torture subite.
Secondo questi esami, infatti, l’uccisione sarebbe avvenuta a non molta distanza dal ritrovamento. Soltanto in seguito i pm egiziani, giunti a Roma, ammisero che Regeni risultò indagato e sorvegliato prima della scomparsa, pur non riscontrando problemi sulla sicurezza nazionale.

Fatto sta che il 10 dicembre 2020, inoltre, la Procura di Roma chiuse le indagini preliminari, a maggio 2021 rinviò a giudizio quattro ufficiali del servizio segreto egiziano: si tratta di generale Tariq Sabir, dei colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi e del maggiore Magdi Sharif. A loro carico furono contestati i reati di omicidio, sequestro di persona pluriaggravato e concorso in lesioni personali.
Le difficoltà del processo
Nulla a che vedere con il reato di tortura, introdotto dal codice penale in Italia nel 2017. I rinvii a giudizio non portarono però a nulla, specialmente visto che gli ufficiali risultarono irreperibili a causa della mancata comunicazione degli indirizzi di residenza. Tensioni continui ed evidenti problemi fra i due Paesi, dalle rogatorie alla mancata presenza dei magistrati italiani durante gli interrogatori.
Sta di fatto che il processo fu cancellato, in assenza della prova circa l’esistenza del processo a loro carico, non ricevuta dai quattro agenti. Ciò significa che l’inchiesta ripartì dal gup che provò nuovamente a notificare agli imputati il procedimento che li riguarda, per poi rinviarli a giudizio.
La battaglia legale continua e la famiglia di Regeni chiede di iniziare finalmente il processo. I quattro ufficiali della sicurezza nazionale egiziana sono accusati di aver rapito, torturato e infine ucciso il ricercatore friulano nel 2016.