Con un annuncio social molto clamoroso, ma ancora tutto da verificare, Donald Trump ha annunciato l’inizio di un cessate il fuoco bilaterale tra Iran e Israele e “la fine della guerra deo dodici giorni…”

Dopo dodici giorni di intensi bombardamenti, raid e missili incrociati, nuovi e spettacolari sviluppi diplomatici sembrano spingere verso una tregua tra Iran e Israele. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato l’accordo per un cessate il fuoco “completo e totale”, che si attuerà in due fasi: la prima prevede la sospensione delle ostilità da parte dell’Iran, seguita, a distanza di dodici ore, da un’interruzione simmetrica da parte israeliana.
Trump annuncia il Cessate il Fuoco
È attraverso i social e un comunicato rilanciato dalle principali agenzie di stampa che Trump ha affidato la notizia, definendo la tregua come una “vittoria della pace” dopo dodici giorni di conflitto. Resta ora da verificare se le parti rispetteranno gli impegni presi.
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Mentre né Teheran né Gerusalemme hanno ancora rilasciato conferme ufficiali, la comunità internazionale – dal G7 alla Russia, fino alla Cina – chiede con forza una de-escalation immediata. Washington, dal canto suo, ribadisce che l’operazione ha colpito in modo significativo il programma nucleare iraniano, ma i timori di nuove violazioni non sono affatto fugati.
Israele e Iran, la tregua prende forma
Da Washington la notizia arriva in piena notte, affidata a un post del presidente Trump su Truth Social. Dopo dodici giorni di intensi raid, bombardamenti mirati e un fitto scambio di missili e droni, Israele e Iran avrebbero accettato – almeno nelle intenzioni – un cessate il fuoco progressivo. Il piano statunitense prevede che l’Iran sia il primo a sospendere le operazioni militari, seguito da Israele entro dodici ore, fino a una tregua bilaterale completa nel giro di ventiquattro ore.
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Trump ha parlato di “cessate il fuoco totale” e ha dichiarato che questa decisione potrebbe salvare il Medio Oriente da una guerra di proporzioni ben più ampie. Tuttavia, il tono trionfalistico della Casa Bianca si scontra con l’assenza di conferme formali da parte dei due Paesi coinvolti. Al momento, Teheran tace ufficialmente, mentre da Gerusalemme arrivano solo dichiarazioni informali e condizionate.
L’origine del conflitto
Il conflitto è esploso il 13 giugno, quando Israele ha dato il via all’operazione “Rising Lion”, un’offensiva su larga scala diretta contro le principali infrastrutture militari e nucleari iraniane. I bersagli sono stati centri nevralgici come Natanz, Fordow, Isfahan e persino alcuni edifici strategici a Teheran, compresa la famigerata prigione di Evin. Secondo fonti occidentali, i raid israeliani sono stati condotti con il supporto logistico e tecnologico degli Stati Uniti.
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L’obiettivo, dichiarato apertamente dal governo israeliano, era quello di interrompere in modo irreversibile la capacità dell’Iran di arricchire uranio a livelli considerati prossimi all’uso bellico. Droni ad alta penetrazione avrebbero distrutto le linee di produzione sotterranee, mentre le bombe bunker-buster americane – sganciate nelle fasi finali dell’operazione – hanno completato il lavoro.
La risposta di Teheran e il contrattacco americano
La sera stessa dell’inizio dell’offensiva, l’Iran ha risposto con una pioggia di missili e droni, diretti soprattutto verso il sud di Israele. L’efficacia del sistema Iron Dome, supportato da sistemi antimissile statunitensi dislocati in Israele e nel Golfo, ha limitato i danni e, soprattutto, ha evitato vittime civili su larga scala.
In seguito, Teheran ha alzato ulteriormente la posta lanciando missili contro la base americana di Al Udeid, in Qatar, e contro installazioni USA in Iraq. L’operazione, battezzata dalla propaganda iraniana “Annunciazione della Vittoria”, non ha causato vittime: il personale americano era stato messo al sicuro in tempo grazie a un preavviso d’intelligence.
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Il 21 giugno è arrivata la controffensiva americana: un’operazione chirurgica contro tre siti nucleari iraniani, gli stessi già colpiti da Israele. Il Pentagono ha parlato di “neutralizzazione strategica”, sottolineando l’efficacia delle bombe a penetrazione profonda nel distruggere centri di ricerca sotterranei e depositi di uranio arricchito.
Fonti non confermate, provenienti da ambienti diplomatici europei, riferiscono di una crescente instabilità politica a Teheran. Sarebbero in aumento le fronde interne al regime e una parte dell’establishment religioso e militare vedrebbe con preoccupazione l’escalation, temendo un collasso del consenso interno attorno alla Guida Suprema, Ali Khamenei.

Diplomazia in azione
Mentre le bombe cadevano, la diplomazia non si è fermata. Il Qatar ha giocato un ruolo fondamentale nel favorire un dialogo tra le parti, anche se per ora senza risultati ufficiali. A Reuters, un portavoce iraniano – rimasto anonimo – ha confermato che la leadership ha “valutato positivamente” la proposta americana, ma nessuna dichiarazione è stata diffusa dagli organi ufficiali di Stato.
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Anche da Gerusalemme è arrivata una risposta prudente: “Abbiamo raggiunto i nostri obiettivi principali – ha riferito una fonte del Ministero della Difesa – ma siamo pronti a rispondere se l’Iran dovesse riprendere l’offensiva”.
Voci politiche e contrasti interni
Sul piano politico, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha definito “essenziale” l’intervento militare per fermare l’Iran, ma ha aperto alla possibilità di una tregua, a patto che Teheran rispetti gli impegni. Trump, dal canto suo, ha parlato di “una nuova fase strategica per il Medio Oriente”, elogiando l’azione delle forze americane.
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Non sono mancate, tuttavia, critiche anche all’interno degli Stati Uniti. Il leader democratico alla Camera, Hakeem Jeffries, ha attaccato frontalmente la gestione del conflitto: “Trump sta improvvisando. Non è chiaro se l’Iran sia stato davvero indebolito sul piano nucleare, né a cosa sia servito l’intervento. Il Congresso è all’oscuro e siamo tutti molto preoccupati.”

Le reazioni internazionali
La comunità internazionale ha accolto con sollievo, ma anche con molta cautela, l’annuncio della tregua. Al vertice G7 in corso in Canada, è stata approvata una dichiarazione in cui si riconosce il diritto di Israele alla difesa e si chiede all’Iran di rinunciare al suo programma nucleare. L’ONU, la Russia e la Cina, invece, hanno invitato a una cessazione completa e verificabile delle ostilità, sottolineando l’urgenza di un accesso immediato dell’AIEA ai siti colpiti.
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Mosca, in particolare, ha mantenuto un atteggiamento ambiguo: pur condannando gli attacchi americani, ha chiesto a Teheran di non reagire ulteriormente. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha parlato di “una situazione pericolosa, ma ancora gestibile”.
Una tregua fragile in un contesto instabile
Malgrado la tregua, lo spettro della “Guerra dei 12 Giorni” continua ad aleggiare su tutta la regione. Secondo fonti iraniane, il bilancio è drammatico: oltre 400 morti e più di 3.000 feriti, con gravi danni a infrastrutture civili, ospedali, reti energetiche e comunicazioni. Le Nazioni Unite hanno espresso seria preoccupazione per l’impatto umanitario del conflitto, soprattutto sui minori.
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Il governo iraniano ha minacciato nuove ritorsioni, anche attraverso l’attivazione di cellule dormienti negli Stati Uniti. Trump, in risposta, ha lanciato un ultimatum: “Teheran ha due settimane per rispettare gli impegni. In caso contrario, le conseguenze saranno gravi e irreversibili.” Il presidente ha evocato più volte lo slogan “Make Iran Great Again”, che molti analisti leggono come un chiaro segnale di sostegno a un possibile cambio di regime.
Una tregua fragile e da definire
Il cessate il fuoco, per quanto accolto con favore, resta fragile. Sarà necessario un controllo serrato sul rispetto degli impegni, una ripresa reale del dialogo e soprattutto la verifica sul campo delle condizioni di sicurezza. I colloqui diplomatici a Ginevra – sponsorizzati dall’Unione Europea – potranno offrire un’occasione, ma solo se accompagnati da una reale volontà di mediazione da parte iraniana.
Il Medio Oriente resta in bilico, ancora una volta, tra una fragile speranza di pace e il rischio concreto di una nuova, devastante escalation.