Tra referendum ed elezioni l’affluenza si ferma intorno al 30,6%, ben al di sotto del quorum. Le comunali consegnano incontri al ballottaggio in grandi città e piccoli comuni. Dati, reazioni, scenari politici e le riforme sul tappeto.
La due‑giorni elettorale dell’8 e 9 giugno 2025 ha mescolato politica nazionale e locale, svelando tensioni tra il richiamo al voto e il disincanto degli elettori.
Un quadro che consente una duplice lettura anche sul piano politico: da un lato, il drastico fallimento del referendum – con un’affluenza attorno al 30,6%, ben lontana dal 50% necessario – dall’altro, l’andamento altalenante delle amministrative, tra vittorie civiche e ballottaggi cruciali.amministrative, tra vittorie civiche e ballottaggi cruciali.
In questo “election day” inedito – in cui si votava contemporaneamente per cinque referendum ma anche per giunte e sindaci di centinaia di comuni – emergono segnali contrastanti su responsabilità, strategia politica e possibili riscritture delle regole elettorali.
Le cinque proposte referendarie – quattro sul lavoro e una sulla cittadinanza – avevano goduto di ampio sostegno tra sindacati (CGIL) e opposizioni (PD, M5S, +Europa). Ma il risultato è stato impietoso: l’affluenza si è attestata intorno al 30,6% con picchi regionali nella fascia centrale (solranto la Toscana ha superato il 38%), ma crolli al Sud e nel Trentino‑Alto Adige, anche sotto il 23%.
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Un livello di partecipazione che si porta persino al di sotto delle previsioni più pessimistiche e che ha reso del tutto inutili i risultati, indipendentemente dagli esiti per quesito.
I sondaggi pre‑voto mostravano una partecipazione prevista tra il 32 e il 42%, con una maggiore sensibilità verso il tema della riforma della cittadinanza (da 10 a 5 anni) . Invece, sin dalla serata di domenica si è capito che il quorum era lontano: alle 23 di domenica si era recato ai seggi solo il 22,7% lasciando ben poco margine di recupero al voto di lunedì mattina.
Secondo gli analisti molto ha pesato la strategia della maggioranza visto che quasi tutti i partiti hanno annunciato l’astensione partecipando solo simbolicamente per legittimare la consultazione. Ma a sfavorire l’espressione del voto è stata anche una certa complessità dei quesiti, una delle argomentazioni che molto spesso diventano tema di discussione sui referendum.
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I quattro tecnici del diritto del lavoro, ritenuti poco comprensibili ai più, oltre a quello sulla cittadinanza – sono stati ritenuti poco chiari e divisivi. A questi va aggiunto uno scarso coinvolgimento mediatico: attivisti e opposizioni hanno denunciato la mancanza di adeguata copertura televisiva e informazione pubblica.
Nonostante la partecipazione ridotta, nei quesiti si sono registrati margini netti: oltre l’80% di “Sì” nei quattro quesiti sul lavoro, e circa il 65% sul tema della cittadinanza anche se queste sono espressioni di voto, e non dati certi. Questo ha comunque permesso all’opposizione di rivendicare un risultato “simbolico”: visto che i 14 milioni che hanno votato superano i comunque i voti ottenuti dalla coalizione di Giorgia Meloni nelle politiche 2022. Ma si tratta di una lettura molto forzata. Impossibile paragonare i due temi e le due scadenze.
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Tant’è che la risposta del centro‑destra però non si è fatta attendere: “La sinistra voleva trasformare cinque referendum in un referendum su Meloni … e invece questa consultazione rivela un governo più forte e una sinistra più debole – ha commentato Giovanbattista Fazzolari.
Anche Matteo Salvini ne ha approfittato per rilanciare l’idea di una stretta sulla naturalizzazione: “La cittadinanza non è un regalo” ha detto a riguardo il Ministro.
In parallelo, le elezioni comunali hanno animato centinaia di realtà: tra le grandi città, Genova e Ravenna hanno premiato il centrosinistra al primo turno mentre Taranto ha visto il ritorno del centrosinistra con Piero Bitetti ma solo al ballottaggio.
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Nel complesso – stando ai dati del Ministero dell’Interno – l’affluenza ai comuni al secondo turno si è attestata tra il 55-60%, decisamente superiore alla media referendaria. In grandi aree e centri minori è emersa una partecipazione inattesa, scandendo uno scenario favorevole ai candidati civici o ai moderati, meno distante dalle urgenze locali.
Sul piano nazionale, il flop referendario sembra rafforzare la posizione di Giorgia Meloni. Una vittoria tattica per altro di basso profilo: il governo consolida la propria base evitando che l’opposizione capitalizzi il voto popolare. Resta tuttavia da verificare la solidità del centrodestra con qalche tensione interna alla maggioranza, tra posizioni moderate e altre più radicali – ad esempio su immigrazione o legittima difesa.
Il centro‑sinistra non riesce a tradurre la presenza “simbolica” di urne piene in un progetto univoco: il PD, M5S e +Europa mostrano difficoltà a costruire un fronte stabile, e la sconfitta elettorale ha amplificato le tensioni. Le prossime regionali – previste in autunno in regioni di grande rilievo come Toscana, Campania e Puglia – saranno un banco di prova decisivo.
Tutti i principali attori politici saranno adesso costretti a confrontarsi con il tema delle riforme del sistema referendario. Il governo spinge per inasprire le soglie e alzare il numero di firme, mentre l’opposizione ritiene il quorum troppo severo e propone di abbassarlo almeno al 40%.
Con le politiche in programma nel 2027 e le imminenti regionali di autunno, l’agenda nazionale è densa. L’affluenza alle comunali mostra che la partecipazione rimane viva quando si vota per decidere sulle comunità locali.
In questo contesto, il “full election day” dell’inizio giugno consegna un’immagine articolata: disaffezione nazionale sui referendum, ma partecipazione concreta e decisa nelle amministrative. I prossimi mesi saranno definitivi per capire se la politica italiana saprà far valere i segnali di rinascita civica o se, al contrario, il voto rimarrà l’eccezione e non la regola.
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