Riforma del lavoro: giovani sfigati o semplicemente sfruttati?

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Inutile nasconderlo, il tema più caldo dell’attualità nel nostro Paese è il lavoro, dolente piaga ormai da tempo immemore. Da un lato abbiamo il governo Monti che con ogni probabilità metterà mano alle tutele dell’articolo 18 nell’ambito della riforma del mercato del lavoro, dall’altro lato i giovani, principale bersaglio degli strali governativi.

Analizzando a fondo il quadro italiano, il vero timore è che si stia creando una frattura insanabile tra la classe politica e i lavoratori, soprattutto quelli più giovani. Alla pace sociale non giovano certo le dichiarazioni sopra le righe di alcuni esponenti del governo, che prendono di mira i giovani definendoli senza mezze misure sfigati, mammoni e poco propensi alle sfide della flessibilità.

Certo, la flessibilità sembra essere la parola d’ordine in un mercato del lavoro sempre più competitivo e aperto, dove non bisogna fare i conti non solo con la concorrenza interna ma anche con quella data da immigrazione e nuovi mercati emergenti, ma siamo proprio sicuri che i giovani d’oggi meritino una sì scarsa considerazione? Cerchiamo di capirlo, numeri alla mano.

La situazione dei contratti in Italia
In nostro aiuto arriva un dossier firmato da Roberto Petrini e pubblicato sul quotidiano La Repubblica, che analizza il variegato mondo dei contratti di collaborazione più o meno legali, quelli che il ministro Fornero vorrebbe cancellare sostituendoli con il CUI (contratto unico di inserimento). Leggendo i dati del dossier appare ancora più evidente quel che i diretti interessati (i giovani precari) sostengono da anni.

Altro che mammoni e sfigati, i giovani che si affacciano al lavoro in Italia dovrebbero essere considerati semplicemente degli sfruttati, perché tale è la situazione contrattuale da fronteggiare giorno dopo giorno. Merito, per così dire, delle aziende che in queste forme atipiche trovano un ottimo escamotage per aggirare i costi di un contratto a norma. Pensiamo ad esempio allo stage.

Lo stage, nella concezione anglosassone, è un periodo di formazione sul campo che il giovane affronta sul finire del percorso universitario o appena laureato, comunque retribuito e finalizzato ad una collaborazione stabile. Importando questo strumento, le aziende italiane, complice il vuoto normativo, hanno pensato bene di farne un’arma per risparmiare. Ecco allora stage reiterati per due tre volte senza alcuna prospettiva, spesso non pagati e scarsamente formativi.

Lo stage diventa il modo perfetto per evitare di assumere: basta sostituire uno stagista dopo l’altro e spremerli facendoli lavorare come fossero dipendenti a tutti gli effetti. Doveri ma niente diritti, niente ferie, malattia e spesso neanche assicurazione contro gli infortuni (per non parlare dei contributi). Ad oggi si contano ufficialmente 300mila stagisti in Italia, ma la cifra è destinata a crescere quando si considerano anche gli stage non ufficializzati.

Si parla tanto di articolo 18, ma la realtà è che gran parte dei lavoratori dello stivale ad oggi non rientrano sotto l’ombrello di tutela dello statuto. Nella stessa situazione si ritrovano i lavoratori occasionali e quelli con contratto a progetto, ma anche le false partite IVA: a tutti questi si richiedono competenze da liberi professionisti ma nella realtà dei fatti devono sottostare a orari e obblighi di dipendenti a contratto. Il co.co.pro. serve soltanto come formula vuota che giustifica stipendi più bassi.

Stiamo parlando di cifre fuori controllo: circa 900mila lavoratori subordinati mascherati che lavorano in media sette mesi su dodici per 8.023 euro annui (dati della Cgil), cui si aggiungono oltre 237mila che nascondono dietro la partita IVA individuale una situazione da subordinato, spesso in monocommittenza, ovvero con un unico datore di lavoro. Non vi bastano questi numeri? Mettiamoci anche 50mila assegnisti, che si riducono a lavorare dai tre ai sei mesi l’anno, o i praticanti che lavorano gratis come schiavi solo per entrare a far parte di un albo.

Giovani italiani: sfigati o sfruttati?
Dopo tutta questa disamina, quali sono le conclusioni? La verità che traspare dal confronto della parole dei politici con la realtà di tutti i giorni è che chi deve decidere del destino di milioni di lavoratori possiede davvero una scarsa conoscenza e consapevolezza del mercato. Appaiono agli occhi comuni come professionisti abituati a ragionare secondo schemi macroeconomici ma che poco o nulla sanno di chi lavora senza remunerazione e garanzie.

Anche alla luce delle proposte di riforma sul tavolo dei sindacati, appare lampante come la flessibilità tanto richiesta debba toccare sempre e solo i diritti dei lavoratori, mantenendo se non ampliando le garanzie a favore delle imprese. Osservando da questo punto di vista persino la polemica sull’articolo 18 appare strumentale e serve solo a distogliere lo sguardo da quei milioni di lavoratori che già oggi si logorano senza alcuna reale tutela. Da questi ultimi dimenticati bisognerebbe iniziare a porre le basi della rinascita economica nazionale.