Le imprese italiane forse ancora devono rendersene conto, ma nel mercato del lavoro è in atto da anni una rivoluzione che porterà a riscrivere la concezione stessa di “azienda”. Un cambiamento impetuoso reso possibile dalla presenza pervasiva di Internet in tutte le case e in tutti gli spazi pubblici (non proprio tutti in Italia). Le nuove parole d’ordine sono flessibilità e connettività, e presto renderanno obsoleto il concetto di ufficio come spazio di lavoro. Il lavoro può essere ovunque e in qualsiasi momento.
Così come l’abbattimento delle frontiere e la moneta unica hanno reso il mondo sempre più interconnesso, così la pervasività di Internet ad alta velocità e gli sviluppi del mobile stanno rendendo il lavoro qualcosa di diverso da come era prima. Spazio e tempo non sono più limiti invalicabili ma opportunità. Pensiamo ad esempio alle classiche riunioni in un’azienda di grandi dimensioni: prima i diretti interessati dovevano muoversi fisicamente per raggiungere la sede dell’incontro, spesso attraversare gli oceani, mentre ora basta un software sul Pc e la distanza è annullata.
Il tempo reale reso possibile dalle connessioni veloci sta mutando anche il concetto di lavoro. Nelle aziende più evolute stanno già sparendo gli uffici in senso fisico, sostituiti da stanze virtuali dove i professionisti, in videoconferenza, interagiscono e prendono decisioni. Consentendo al tempo stesso all’azienda un notevole risparmio in termini di risorse. Il telelavoro e il lavoro flessibile (part-time, ad esempio) sono realtà consolidate quasi ovunque, ma in Italia faticano a prendere piede. Il motivo non è solo culturale, ma soprattutto normativo.
L’Italia non è un Paese per lavoratori flessibili, perché il termine viene ancora concepito dalle aziende come un semplice modo per aggirare la legge e risparmiare barando. Flessibilità in Italia significa soprattutto lavoro a nero o con contratti molto fantasiosi, ma anche chi è “regolare” deve pagare uno scotto pesante per la sua scelta (volontaria o meno). Lo dimostra uno studio condotto dall’osservatorio sul Diversity management della Sda Bocconi di Milano, che ha preso in considerazione 52 mila lavoratori nel periodo 2007-2010, distribuiti su due grandi aziende.
Come riporta Repubblica, “l’unica forma di flessibilità prevista era il part-time, utilizzato dal 13,2% del personale, in larga parte donne. Rispetto ai colleghi a tempo pieno, quelli a orario parziale sono risultati penalizzati. La loro valutazione di fine anno è sempre stata più bassa: solo il 10,5% dei part time ha ricevuto i punteggi più alti in assoluto contro il 21,5% dei full time. La disparità di trattamento è ancora più evidente in termini di passaggi di livello contrattuale: l’88,3% dei lavoratori part-time non ne ha registrato nessuno, contro il 72,7% dei full-time. I fortunati che hanno fatto due o più salti di livello sono il 5,7% dei full-time e lo 0,8% dei part-time. Infine, anche gli incrementi salariali non legati ai passaggi di livello sono stati attribuiti di preferenza ai lavoratori a tempo pieno”.
Chi lavora meno produce meno? Non è assolutamente vero, e anzi la ricerca ha confermato quel che il buon senso suggeriva, ovvero che lavorare meno spesso porta risultati migliori. Nonostante questo, però, i lavoratori flessibili in Italia vivono in una sorta di ghetto pieno di incertezze. Solo uno stolto non si renderebbe però conto dei vantaggi di questo modello organizzativo, che unito al telelavoro e ai vantaggi di Internet non si limitano a trasformare il concetto di azienda, ma lo cambiano in meglio in termini di efficienza.