Contratto unico in arrivo: cosa cambia per chi cerca lavoro

precari

Quello del Contratto unico è un concetto che in Italia gira più o meno da una decina d’anni, da quando per la prima volta venne proposto da Tito Boeri e Pietro Garibaldi. Era il 2002, e da allora sull’argomento è stato un continuo dibattito tra ideologie diverse, tra politica e sindacati. Al centro del contenzioso sempre lui, l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.

Ora con la fase due del governo Monti il Contratto unico d’ingresso sembra sempre più vicino, in seno ad una riforma generale del mondo del lavoro, il cosiddetto Piano Fornero. Il premier aveva parlato fin dall’inizio di misure necessarie per parificare i diritti di chi già lavora da tempo e chi invece si affaccia solo ora al mondo del lavoro, tra insicurezze e precariato.

Secondo la Fornero il contratto unico (nome in codice CUI) è “in grado di conciliare la flessibilità in ingresso richiesta dalle imprese con l’aspirazione alla stabilità rivendicata dai lavoratori”. Andiamo a vedere nella sostanza cosa prevede questo fantomatico Contratto unico, e quali ripercussioni potrebbe avere sul mercato del lavoro.

Partiamo dal dato più importante: il Contratto unico sembra destinato a sostituire nel prossimo futuro tutte le varie forme contrattuali attualmente in essere, che rendono il mondo del lavoro molto simile ad una giungla in cui è impossibile orientarsi. Si porrebbe quindi come un ombrello normativo che regolerà tutti i rapporti di lavoro dipendente. Come prevedibile, comunque, non sostituirà i contratti già in essere ma regolerà solo i rapporti dei neoassunti.

Con il Contratto unico si cerca quindi di rendere omogeneo un mercato caratterizzato da un dualismo crescente tra chi è tutelato dal contratto a tempo indeterminato e tutti coloro che non hanno tutela alcuna e sono costretti ad accettare forme contrattuali atipiche (se non illegali). Non parliamo di cifre irrisorie, visto che ormai solo un giovane su dieci inizia una professione con un contratto a tempo indeterminato.

Qui si pone la grande novità di questo progetto: il nuovo lavoratore che entrerà alle dipendenze di un’azienda avrà davanti a sé un’unica forma contrattuale, ovvero il tempo indeterminato. Un effettivo miglioramento, ma che presenta comunque alcuni punti a favore delle aziende che i sindacati non vedono di buon occhio.

Il testo di riforma finale è una sorta di compromesso tra la proposta originaria di Boeri e Garibaldi, e quella più recente del giuslavorista del PD Pietro Ichino, un’evoluzione della prima. Il CUI dovrebbe essere strutturato in due fasi distinte: nella prima, che potrà durare fino a tre anni, il neoassunto non godrà dei diritti dell’articolo 18 e quindi per l’azienda sarà più facile licenziare. Precarietà che verrà meno allo scadere dei tre anni, qualora il datore di lavoro dovesse decidere di assumerlo definitivamente. In questo caso scatteranno le tutele dell’attuale contratto a tempo indeterminato.

La suddivisione in due fasi viene dalla versione originaria di Boeri e Garibaldi in cui il Contratto unico sarebbe stato un contratto a tempo indeterminato, ma interrompibile in qualsiasi momento dell’azienda senza giusta causa. Per i primi tre anni, il lavoratore sarebbe stato comunque tutelato da una compensazione monetaria: il licenziamento veniva compensato con 5 giorni di retribuzione ogni mese di anzianità, senza l’obbligo di reintegro previsto dall’articolo 18. Allo scadere dei tre anni, utili perché le due parti si conoscano meglio, il lavoratore avrebbe avuto tutte le tutele del tempo indeterminato.

Il progetto originario doveva inoltre essere affiancato da una seria riforma degli ammortizzatori in grado di garantire un sussidio di disoccupazione a tutti, e questo particolare verrà di sicuro tralasciato (almeno inizialmente) dal nuovo ministro del Lavoro, visto che costerebbe qualcosa come 15 miliardi di euro l’anno. In ogni caso sono allo studio misure per evitare che la riforma si trasformi in un boomerang per chi si trova senza lavoro.

La proposta di Ichino differisce in alcune caratteristiche fondamentali. Il Contratto unico non avrebbe più i tre anni di prova, ma introdurrebbe la possibilità di licenziamento “per motivi economici e organizzativi”. Ovvero, appena l’azienda sente aria di crisi può iniziare a licenziare senza che le tutele dell’articolo 18 si mettano di mezzo. Un vero e proprio terno al lotto per i lavoratori, visto che solo dopo 20 anni di servizio “l’onere della prova circa il giustificato motivo economico tecnico o organizzativo è a carico del datore di lavoro”.

Quello del lavoro è un problema sempre più grave in Italia, quindi è necessario mettere mano ad una riforma seria che non abbia paura di scardinare i privilegi di pochi. Bisognerà vedere se la Fornero e il governo tecnico avranno la forza per andare fino in fondo affinché la parificazione dei diritti tanto voluta da Mario Monti non rischi di trasformarsi nel classico “meno diritti per tutti”.

Foto AP/LaPresse