I primi giorni della gestione del Covid: tra errori di sottovalutazioni e voglia di mascherare alcuni dati: “Se vogliamo mantenere le restrizioni…”
Battute, dichiarazioni forti, verità nascoste e prese di posizione in completo contrasto con ciò che si diceva davanti ai microfoni. L’inchiesta sulla gestione dei primi giorni di diffusione del Covid, sta facendo emergere un lato nascosto di tutti gli attori principali della vicenda. Una storia che, giorno dopo giorno, assume dei contorni ben definiti.

Le intercettazioni e i messaggi tra ministri e responsabili medici, mostrano agli italiani le incertezze, i dubbi e gli errori commessi nei primi giorni. A fare scalpore poi sono alcune prese di posizione. Mentre pubblicamente i politici dichiaravano di attenersi alle indicazioni del mondo scientifico, nella realtà erano loro ad indirizzare i medici e i responsabili del Comitato Tecnico scientifico. Il Ministro Speranza, in una conversazione con Brusaferro, presidente dell’ISS, gli diceva: “Conviene non dare troppe aspettative positive”. Meglio non far capire alle persone che alcuni dati tendevano ad essere positivi: “Allora non mostrerò quei dati che ti ho inviato”, rispondeva Brusaferro.
Siamo al sei aprile del 2020, in pieno lockdown. Il Ministro detta la linea da seguire al medico nella consueta conferenza stampa: “Domani tieniti sulle curve all’inizio. Poi vediamo domande. Due avvertimenti: 1) tutto quello che direte può finire fuori alla stampa. 2) se vogliamo mantenere misure restrittive conviene non dare troppe aspettative positive”. Brusaferro quindi dichiara di non rendere noti alcuni dati (evidentemente contrari al progetto di Speranza): “Ok Quindi niente modelli come quello che ti ho mandato. Ci raccordiamo domani Buona notte”. L’indomani (dopo la conferenza), Speranza si congratula: “Ottimo, tenete duro”. Brusaferro chiede: “E’ sufficiente?”. “Ottimo”, risponde Speranza. “Glielo diciamo? Che prevediamo sempre la chiusura?”, chiede ancora il numero uno dell’ISS. “Si. Chiaramente”, conclude Speranza.
Guai a far evidenziare possibili sviluppi positivi. La voglia di non regalare all’opinione pubblica i dati che emergevano, si evince anche da un’altra conversazione. “Massima cautela nella diffusione del documento onde evitare che i numeri arrivino alla stampa”. Tre giorni dopo il caso di Paziente 1, che ha dato il via ufficiale alla pandemia che di lì a poco avrebbe travolto la Lombardia e l’Italia, il Comitato Tecnico Scientifico e il mondo della sanità e della politica erano preoccupati che non filtrassero notizie allarmanti.
I primi dati

Il 24 febbraio gli esperti chiamati a gestire l’emergenza, imponevano di mantenere la segretezza sul “piano di organizzazione della risposta (…) in caso di epidemia“, che si avvaleva dello studio sugli scenari “devastanti” del contagio che in quel periodo veniva “completato” da Stefano Merler, consulente epidemiologo della Fondazione Kessler. E’ paradossale il consiglio dato in merito ai tamponi, che andavano eseguiti solo per i “casi sintomatici”, perché le “comunicazioni di positività non associate a sintomi determinano una sovrastima del fenomeno sul Paese”.
Tornando al piano “segreto” di Merler, Antonio Pesenti, allora coordinatore delle terapie intensive dell’Unità di crisi della Lombardia e primario al Policlinico, ha spiegato ai pm di averlo visto riservatamente. Il professore, rispondendo alle domande, ha spiegato che riguardo agli scenari del ricercatore della fondazione Kessler nessuno ai tempi, per quanto ne sapesse, aveva informato il presidente della Lombardia Attilio Fontana, l’assessore e il direttore generale del Welfare, Giulio Gallera e Luigi Cajazzo. Perchè nessuno avvisò i responsabili politici lombardi della situazione in corso? E rimanendo sulla mancata attuazione della zona rossa in alcune parti della Lombardia, Francesco Zambon – ex ricercatore dell’organismo dell’Onu e colui che ha rivelato, tra l’altro, che il piano pandemico italiano era datato 2006 – aveva stimato al 26 marzo “2000 pazienti in terapia intensiva”. Chiese così “immediate misure restrittive” e di “chiudere i confini della Lombardia”, in quanto era una “questione di vita o di morte”. Ma dall’Oms “si mostrò esitazione” e dubbi sulla “scientificità delle azioni richieste”.